APOLOGIA DEL REGISTA di Silvio D'Amico
La celebrità in tutto il mondo Pirandello se l'è conquistata specialmente con un'opera, Sei personaggi in cerca d'autore, che mette in scena la genesi d'una rappresentazione scenica, ma per cavarne alcuni significati, dei quali l'essenziale ci par questo: ogni rappresentazione è un tradimento; ogni artista drammatico vede e ricrea un personaggio, una scena, un dramma, a modo suo; ogni cosiddetto interprete, se è un artista, non "interpreta" ma inevitabilmente rifà, svisandola, l'opera del poeta. Morale in parole povere: "interpretazione scenica" è un modo di dire privo di significato. Morale vera e propria: impossibilità degli uomini a uscire da sé, a conoscere e a essere altro che se stessi; incomunicabilità degli spiriti.
Ci pare che in Questa sera si recita a soggetto, Pirandello sia tornato, meglio che a una "morale" vera e propria, a un motivo di natura più strettamente tecnica, quella dell'interpretazione tradimento. Scene di carattere, alle volte, didascalico; e che fanno pensare, meglio che all'essenza tragica, agli onesti precetti dati in commedie di propaganda estetica, tipo Il teatro comico di Goldoni.
Avevamo letto che, buttandosi decisamente dalla parte di quegli autori i quali oggi si ribellano all'invadenza (ahimé, anche economica) del metteur en scène, Pirandello avrebbe fatto, nel suo lavoro, la satira di cotesta invadenza. Ma l'asserzione ci pare tutt'altro che esatta. Pirandello drammaturgo è rimasto, qui, quello ch'era il Pirandello scrittore di saggi critici (vedere il suo volume arte e scienza, ch'è del 1908); ossia d'accordo, sostanzialmente, con l'Estetica del tempo suo, e ancora nostro. Il motivo fondamentale di Questa sera si recita a soggetto è che, in fondo, tutte le sere si recita a soggetto: perché non è possibile altrimenti; perché la parola scritta da un poeta resta quella che è nello scritto, ma in bocca al cosiddetto interprete assume un altro valore, dice un'altra cosa; perché, insomma, l'opera del poeta si conosce nel libro, a teatro si conosce l'opera degli artisti che, rappresentandola, la ricreano a modo loro. (Non è davvero il caso di riprendere, qui, la discussione che abbiam fatto tante volte altrove, su quanto c'è di vero, sub specie aeternitas, in questo principio, e quanto c'è, nella sua pratica, di capzioso e di disastroso.)
E come Pirandello abbia, questa volta, trattato il suo tema, i nostri lettori l'hanno già appreso quindici giorni fa, dal nostro intelligentissimo corrispondente di Berlino, quando l'opera fu messa in scena al Lessing Theater. Ricordiamo sommariamente che il poeta s'è divertito, ancora una volta, a introdurre il pubblico nei misteri delle quinte: dove un régisseur, il dottor Hinkfuss, consapevole d'essere lui il vero creatore d'ogni spettacolo che dirige, questa volta invece d'una commedia ha preso una vecchia novella di Pirandello, Leonora, addio!, e s'è proposto di trasformarla in dramma senza neanche farne una metodica riduzione, scritta, ma contentandosi di spiegare il canovaccio agli attori e di affidarsi alla loro recitazione più o meno improvvisata, a soggetto, sotto la sua direzione.
La novella, per chi non lo ricordasse esattamente, espone un caso di gelosia «e della più tremenda, perché irrimediabile». Si tratta d'un tal Rico Verri che, facendo l'ufficiale di complemento in una piccola città di Sicilia, s'è innamorato d'una ragazza, Mommina, primogenita fra le quattro prosperose figliole d'un signor Palmiro, e l'ha sposata. Nella chiusa vita della cittadina isolana la famiglia del signor Palmiro, il quale aveva una moglie "continentale", era la sola a schiuder le porte ai conoscenti, borghesi e ufficiali, e a conceder loro di prendersi confidenza con le ragazze: di qui l'amore e le nozze. Ma di qui, anche, la gelosia retrospettiva di Rico, il quale diventato marito e padre comincia a rodersi nel ricordo del clima licenzioso che si respirava in casa di Mommina, scandalo di tutto il paese; e, non pago di aver sequestrato la moglie impedendole ogni contatto con la madre e le sorelle (che morto il padre, vivono d'espedienti più o meno turpi), si dispera all'idea di non poter sopprimere, nel cervello della sua donna, le memorie dell'antiche "libertà", e i rimpianti per la vita che ora le è preclusa. li dottor Hinkfuss, nel mettere in scena questa novella, l'ha ampliata all'uso dei direttori di cinematografo, incominciando dal rappresentare per disteso gli antefatti: la chiassosa vita della famiglia ospitale, il va e vieni degli ufficiali per la casa, le beffe della cittadina alle asserite sventure coniugali del padre, un intrighetto fra questo padre e una certa chanteuse di cui egli s'è incapricciato, infine la morte di lui accoltellato (ch'è un'invenzione del regisseur, il quale non può concepire Sicilia senza coltello) in una rissa, per aver difeso la femmina. La messinscena di tutte queste vicende occupa i primi due atti. Al terzo, invece, siamo a ciò che formava (se non ricordiamo male) la sostanza della novella: ossia allo spettacolo della reclusione di Mommina, che, straziata dai furori del geloso, cerca invano rifugio nell'amore delle sue creaturine; e, nel mettersi a cantare davanti alle piccine le belle musiche d'una volta, quelle che ora una delle sue sorelle va regalando al pubblico dei teatri di provincia, non regge all'angoscia e (invenzione, anche questa, degl'interpreti) s'abbatte e muore.
Questa sera si recita a soggetto rappresenta dunque, con note assai piacevoli almeno nei primi due atti (fors'anche perché in essi abbondano il comico e il grottesco), il régisseur alle prese con i suoi attori, nel tradurre in atto la trama ch'egli ha ricavato dalla novella. Sono, in un andirivieni che ha per teatro non solo il palcoscenico ma anche la platea e i palchi (e perfino, almeno nelle non realizzate intenzioni dell'autore, il ridotto) istruzioni e battibecchi, bizze e ripicche d'artisti, fra loro e contro il loro direttore; è la lotta delle singole personalità nessuna delle quali vorrebbe cedere il passo, nell'esigenze dell'insieme, alle altre, né sottostare agli ordini del capo. Il quale capo alla fine del second'atto (e forse è qui che s'è voluta vedere la satira) appare, ai suoi sottoposti, troppo dispotico, e viene messo bellamente alla porta dagli attori, divenuti finalmente concordi nel proclamare: «anche tu sei di troppo, faremo da noi». Gli è che gli attori hanno finito per identificarsi coi personaggi in cui si sono "calati"; ormai rifiutano le costrizioni altrui; vogliono vivere, ciascuno, di sé e da sé. E il pubblico pensando a quanto era già accaduto all'autore, adesso che vede eliminato anche il direttore è indotto a pensare: «bene: ciò che vien fatto, è reso». Fatto sta che il terz'atto, quello della reclusione, svolge senza interventi del régissetir le sue tinte cupe, affidate alla libera improvvisazione degli attori: e forse appunto per la sua scura monotonia, non più variata dai brillanti incidenti a cui il pubblico aveva preso gusto, non è quello che lo stesso pubblico goda di più.
Solo alla fine, morta Mommina contro l'aspettazione dei suoi compagni, il régisseur che s'era nascosto a regolare le luci ritorna a galla: lo avevano cacciato, ma egli era ben rimasto presente in mezzo ai suoi artisti, a tenerli in ordine, senza ch'essi neppure se ne avvedessero. Conclusione? Che ogni artista deve, sì, essere se stesso: ma che tutti, poi, debbono obbedire all'arte, e alla sua disciplina. La quale disciplina è data dal direttore, e dalle parti scritte dall'autore: ma l'autore in persona se ne resti fuori del teatro, il suo compito egli l'ha esaurito a tavolino.
E' possibile che una fantasia di spettatore, specie se già scaltrita nei lampeggianti giochi pirandelliani, risalendo più in là dell'immediate apparenze, possa trovare all'opera anche altre i nterpretazioni, più sottili e più ampie. Ma quello che Pirandello ha, stavolta, esplicitamente detto, ci pare sia questo e non altro.
Dunque non satira ma, nonostante alcune ironie di dettaglio, sostanziale apologia del metteur in scéne, creatore e signore dello spettacolo. Per la quale Pirandello s'è servito, com'era suo diritto, di vecchi materiali tutti usciti dalle sue proprie officine; o, se, si preferiscono paragoni più nobili, di fiori colti nei suoi propri giardini. Che sono, si sa, giardini sui generis, d'un coltivatore il quale predilige innesti impensati, e alle volte fa sbocciare corolle mostruose, alle volte distilla profumi inauditi. Questa volta odori e colori non ci hanno detto gran che di nuovo: li conoscevamo già, e il piacere se mai è stato quello di ravvisarli, nelle nuove combinazioni e variazioni, specie in quelle dove l'autore ha quasi avuto l'aria di fare, un poco, la parodia di se stesso, del Pirandello già ben noto.
Ma poi bisogna aggiungere che, a questa apologia, ha contribuito praticamente anche Guido Salvini, direttore intelligente, abile e discreto, concertando la sconcertante messinscena dell'opera sempre con una grazia, e spesso con uno stile, a cui purtroppo non siamo abituati. Tutti, si può dire, senza eccezione, i suoi attori lo secondarono nel migliore dei modi: ricordiamo alla rinfusa Renzo Ricci ch'era, con una sorta di birignao prestigioso e fatale, il regisseur, e il Biliotti ch'era il grottesco signor Palmiro, e la Starace ch'era la napoletanissima sua moglie, e Carlo Ninchi ch'era il marito geloso, e la Peroni ch'era la sciagurata Mommina, e la Casagrande, e la Torniai, e gli altri. Tutti viventi, come vuol Pirandello, la propria parte: ma nessuno fino al punto di una delle due bimbe che, all'ultimo atto, davanti alle straverie della mamma in delirio, si mise a pianger disperatamente, e bisognò portarla via.
Venti e più chiamate, all'autore e agli attori. Oggi prima replica.
18 giugno 1930.
( da Cronache del teatro a cura di E. Palmieri e A. D'Amico, Bari, Laterza, 1963)
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