IL PERSONAGGIO SEQUESTRATO
di Giovanni Macchia
Questa sera si recita a soggetto resta uno dei testi in cui Pirandello ha realizzato con la maggiore concisione possibile il grande tema del personaggio sequestrato. E la rappresentazione di un sacrificio dolente e ineluttabile, come in certi misteri medievali, ove il carnefice diventa anche la vittima e il torturatore il torturato. La crudeltà esercitata sulla donna, rinchiusa in una gabbia come una bestia, come un agnello destinato alla morte, ricade sull'uomo, e quando, al colmo dell'esasperazione, egli esce dalla scena, nessuno sa quale sarà la sua fine.
E' noto che, trasportando quel tema dalla novella al palcoscenico, Pirandello volle darci uno dei suoi magistrali esempi di teatro nel teatro, e quasi per una scommessa: riuscire a commuoverci anche se l'artificio teatrale viene preparato sotto i nostri occhi, nel momento stesso in cui gli attori stanno per divenire dei personaggi. Non sarà quindi l'imitazione della realtà a provocare in noi la commozione, ma sarà la scena stessa, nella scoperta verità della sua finzione, attraverso le fasi varie della conquista di uno spazio teatrale sempre più chiuso e soffocante, a imporre le sue leggi sullo spettatore. E tutti i luoghi e i tempi dell'azione saranno accuratamente rispettati. Ma quali sono i luoghi e i tempi in cui quel personaggio comincia a vivere? Quasi per affermare la preminenza del teatro, nella sua sconfinata libertà, sulle altre forme espressive, Pirandello si affida insieme al racconto, per la potenza d evocazione che hanno le parole, e alla visione diretta della realtà nel momento in cui la guardiamo. La certezza del luogo è indispensabile perché si realizzi sulla scena la condizione del personaggio sequestrato. La voce lontana del narratore diventerà la voce della madre, cui verrà affidato il racconto delle stazioni dolorose di quel calvario. Sarà lei a informare il pubblico, mentre la scena viene preparata sotto i suoi occhi, che la figlia fu imprigionata nella più alta casa del paese, e che furono serrate la porta e tutte le finestre, le vetrate e le persiane, meno una sola, piccola, aperta alla vista della campagna e del mare lontano. Sarà anche la madre a farci sapere ciò che la figlia vedeva di lassù, e ci dice cose che, se avesse potuto parlare, la signora Frola, col pianto alla gola, avrebbe detto sulla prigione della sua povera figliola. Di quel paese, alto sul colle, la sventurata non vedeva che i tetti delle case, i campanili delle chiese: tetti, tetti che sgrondavano chi più e chi meno, tesi in tanti ripiani, tegole, tegole, nient'altro che tegole. Notava Proust che i personaggi di Stendhal, Julien Sorel o Fabrizio del Dongo, chiusi in una prigione situata in un luogo elevato, dimenticavano le loro cure vane per vivere una vita disinteressata e voluttuosa. Ma al povero personaggio di Pirandello quell'altura, quella solitudine, quel silenzio, quella segregazione non davano che un senso di capogiro. Tutti quei tetti, dice la madre, come tanti dadi neri, le vaneggiavano sotto, quando verso la sera poteva affacciarsi a prendere un po' d'aria a quella finestra, nel chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste del paese in pendio. Udiva nel silenzio profondo delle viuzze più prossime qualche rumor di passi che facevano l'eco; la voce di qualche donna che forse aspettava come lei; l'abbaiare di un cane e, con più angoscia, il senso dell'ora del campanile nella chiesa più vicina. Ma perché continuava a misurare il tempo quell'orologio? Esisteva ancora il tempo? Tutto è vano e morto, dice la madre. E proprio la madre, che dovrebbe essere lontana a scontare la pena della sua colpa, prepara la grande scena della tortura. Si fa scenografa, si fa regista.
La vestizione della condannata ha nel testo la stessa importanza che nel Galileo di Brecht ha la vestizione del Cardinale Barberini, accompagnato sulla scena dal Cardinale Inquisitore. Egli viene abbigliato per l'imminente conclave, ove verrà eletto papa sotto il nome di Urbano VIII, ma via via che si veste gli addobbi imponenti conferiscono tetraggine a tutta la sua figura, e da quella tetraggine nasce un avvertimento: che quel prigioniero della scienza, tipo carnale, sanguigno, prossimo alla capitolazione, «non deve essere torturato». In Pirandello il procedimento della vestizione è opposto. Si tratta di spogliare la condannata, non di vestirla. Il trucco deve accentuare un'espressione di estremo dolore, di fatica, di sacrificio. Via tutto il rosso della bocca, perché la giovane non deve aver sangue nelle vene. Bisogna segnare le pieghe agli angoli della bocca, perché qualche dente a trent'anni può esserle caduto, e sulle tempie i capelli diventeranno non bianchi, ma impolverati di vecchiaia, spettinati perché il marito geloso non vorrà certo che la moglie se li pettini, quei capelli. E la svestiranno, le toglieranno il busto, e perché appaia più goffa le metteranno l'una su l'altra la gonna e la casacca. Le scivoleranno le spalle come a una vecchia. Andrà ansante per la casa, imbalordita dal dolore, strascicando i piedi come se la sua carne non fosse altro che carne inerte. Sono questi i tempi che deve affrontare nella truccatura il personaggio promesso al martirio, una piccola donna qualunque, come ce ne sono tante, e il cui destino nessuno forse conosce. Ma quali oggetti devono arredare la stanza della condannata? E' necessario eliminare tutti gli specchi dalle pareti. Se essa ha potuto una volta guardare se stessa, si è vista come un'ombra nei vetri o deformata nel tremolare del l'acqua in una conca. La stanza della tortura deve essere il luogo della solitudine. La donna deve essere lasciata sola. Tutti gli altri, parenti, amici, devono ritirarsi nel buio. E soltanto allora la donna potrà misurare lo spazio chiuso, dalle solide mura, di quel carcere dove dovrà morire. Il riconoscimento di quello spazio verrà affidato anche al rumore, al tonfo sordo e disperato della testa che batte contro il muro.
Come un uccello ella verrà a battere con la fronte prima sulla nuda parete di destra, poi su quella di fondo, poi su quella di sinistra. Al rumore di quella fronte la parete diventerà un attimo visibile per un tagliente colpo di luce dall'alto, come un freddo guizzo di lampo, e tornerà a scomparire nel buio. La luce, simbolo di liberazione, appare qui per un attimo perché riveli nell'animo della protagonista l'impossibilità della fuga. E come un animale impazzito ella riconosce e misura, con un atteggiamento d'insensata, il luogo dov'è rinchiusa: «Questo è muro!» dirà «Questo è muro! Questo è muro!». E lo spazio è quadrato, con i suoi quattro angoli ben saldi che respingono chi vi s'accosti. Se lo spazio fosse circolare, il disegno delle curve potrebbe dare l'illusione del movimento, come il girotondo dei prigionieri di Van Gogh che camminano uno dietro l'altro nell'ottagono delle pareti alte e spigolose. Mommina è ferma, immota, e aspetta il suo carnefice.
Il prigioniero è stato sempre un grande protagonista della letteratura universale. La lunga serie di «poeti prigionieri», fisicamente ridotti per lunghi anni ad una spaventosa solitudine, c'insegna che molti di essi non fu possibile condannarli al silenzio, perché, come scrisse un poeta inglese, per gli animi liberi «mura di pietra non fanno una prigione, né sbarre di ferro una gabbia». Lo sapevano Charles d'Orléans e Francois Villon. Ma ai tempi nostri quel tema ha avuto variazioni infinite: da Kafka a Musi I, a Beckett, e si è installato con vigore nuovo nella letteratura amorosa, alimentando l'orribile condizione dell'amante geloso. Sequestrando la persona amata, l'innamorato geloso intende sequestrarle anche l'anima, e questo sentimento, che si nutre di una realtà che continuamente gli sfugge, gli toglie anche ogni ragione di libertà. U uomo geloso connette strettamente la necessità della prigione all'idea del suo contrario: l'evasione, e da questa idea nasce il suo tormento. Quanto più la prigione è totale, tanto più essa nell'animo di chi la invoca diventa inutile. E tra queste due entità contraddittorie eppur unite il geloso si dibatte senza trovar via d'uscita. Egli sa che in ogni prigioniera s'annida una fuggitiva e il più feroce degli aguzzini non riuscirà a sottometterla. La prigioniera e la fuggitiva sono per il geloso le due figure che rendono impossibile l'esistenza della condizione amorosa. E, nella Prisonníère e nella Fugitive, Proust è stato ai nostri tempi il grande analista e il poeta di questa condizione impossibile.
Il narratore della Recherche non si illude, come non s'illude il personaggio di Pirandello. Sa che tra la molteplicità confusa dei particolari e dei fatti menzogneri in cui lo avviluppa l'esistenza stessa della donna egli non riuscirà mai a districarsi. Metterla in prigione era possibile ma dalle prigioni si evade. E perciò anche questa decisione (sequestrarla) non fa che trasmettere all'innamorato un'inquietudine in cui sente fremere come l'anticipazione delle lunghe sofferenze future. Aver prigioniera la donna nella sua casa era un piacere assai meno positivo che quello d'aver ritirato dal mondo, ove ciascuno poteva goderne come voleva, la ragazza in fiore che, se non gli dava grandi gioie, privava almeno gli altri di quelle gioie. Separarla dalla madre, dalle sorelle, dalle amiche, non era ancora tutto, come sa bene il marito di Mommina, il Verri. Rinasceva il grande interrogativo: l'impiego del tempo della donna prigioniera, e la lenta trasformazione dei due personaggi. Poteva accadere che proprio nel momento in cui essa rendeva la claustrazione più perfetta, proprio allora questa costrizione volontaria gli rivelasse che la donna aveva qualcosa da rimproverarsi e chiedeva la propria espiazione. E ancora questo il sospetto del Verri. Dinanzi alla finestra illuminata di Albertine, levando gli occhi su quella finestra, all'innamorato sembrò di vedere una grata luminosa: ed era stato lui a forgiare, per la propria «servitude éternelle», le inflessibili sbarre dorate della sua prigione. Non c'è via d'uscita. La gelosia non finisce che con la morte dell'essere che la suscita.
In Questa sera si recita a soggetto il grande tema siciliano, la gelosia, non consente silenzi, timori, indecisioni, cose non dette, sospese, sommerse ed eternamente riaffioranti, come una denuncia senza prove, e avvolgimenti della coscienza in delirio che non smette di patire. Qui la preparazione della scena, la stessa accurata e dolente vestizione della condannata, non consente dubbi. Siamo alla fine di una lunga serie di processi che si sono susseguiti senza posa in quella stessa stanza, con gli stessi personaggi. E la scena finale quale può svolgersi in un tribunale che ascolti e che giudichi, perché il vero teatro è un tribunale. Ma è un tribunale eccezionale. Il dibattimento che si è aperto chissà quanti anni prima non è limitato alla vittima. Accecato dalla gelosia, l'uomo è trasportato, con tutti i mezzi che ha a disposizione - e soprattutto con quelli che gli sfuggono, e che non può vedere, denunziare, toccare, perché chiusi nella densità buia dell'essere che ha di fronte -, a mostrare dinanzi al giudice assente, ma che pur s'annida nella sua anima come sdoppiata, la colpevolezza della vittima, e sente che anch'egli ha bisogno di essere giudicato. Deve scaricarsi dall'accusa di cui lo ricopre la madre: di essere un mostro. Egli deve gridare la sua passione, quella che gli fa commettere il delitto. I mostri non soffrono, godono se mai del martirio che infliggono agli altri. Egli impazzisce nel suo stesso ufficio biblico, primordiale, di difensore dell'onore: il grande, immacolato, intatto onore che vive religiosamente sopra di noi come un'irraggiungibile reliquia. Egli giudica per essere giudicato e per essere assolto.
In questa sua requisitoria non sono più i fatti che contano, ormai soppressi dalla rigida claustrazione della condannata, ma ciò che i fatti, nel ricordo delle colpe commesse, dei piaceri che non si cancellano e che continuano a vivere appiattati sotto la coscienza, hanno depositato e ramificato in lei come una vegetazione abnorme che arriva ancora a stordire i sensi. Caduti i fatti, non esistono che le sensazioni, che è impossibile riconoscere ed estirpare. E ciò che non si riesce a chiudere in una prigione e che rende, come in un procedimento di magia, le mura sottili come fogli di carta.
Sono i pensiero, i sogni, le fantasie, gli inafferrabili segni del tradimento, e che in quanto inafferrabili s'ingigantiscono nell'immaginazione del torturatore. L'impiego del tempo, di quel tempo del tutto inerte, si annoia come un problema insolubile che pure deve esistere, quel tempo occupato nella solitudine infinita, nelle ore che non passano e che pure devono essere riempite. Da che? «Non ti stanchi mai di pensare? [...] E ora a che pensi? Voglio sapere a che pensi. A che hai pensato tutto questo tempo aspettandomi? Non me lo puoi dire.» E poiché l'accusata denuncia di aver dormito per abolire il tempo della sua vita, all'inquisitore non pare che il sonno riesca ad abolire il tempo. Dietro il sonno, accucciati, colpevoli, si celano i sogni, e poiché egli «non può spaccarle la testa per vederle dentro ciò che pensa», ciò che sogna, proprio i sogni, entro i quali si rifugia il dolce stringente sentimento della propria colpa, del proprio io vanamente soffocato, potrebbero diventare l'ultima vendetta contro di lui. Il giudice vuol trasformarsi nel giudice supremo, in un Dio a cui nulla è ignoto e che vede ciò che non può essere visto nell'oscurità della coscienza. E poiché anche Dio dimostra la sua impotenza, e, se il marito la accecasse, ciò che gli occhi hanno veduto, i ricordi che la donna ha ancora negli occhi, le resterebbero nella mente, e, se le strappasse le labbra, il piacere, il sapore rimarrebbero con lei fino a morirne, fino a morire di questo piacere, la parola ch'egli ha pronunciato - morire - diventa l'unica via possibile, la sola condanna che può emettere quel supremo tribunale della cui autorità l'uomo si sente investito. La gelosia - aveva scritto Proust non finisce che con la morte dell'essere che la suscita. E questo sente con chiarezza anche la condannata: «Tu morta mi vuoi, morta, che non pensi più, che non sogni più!». E la morte infatti - lei che avverte nel cuore «come un galoppo di cavallo scappato che a un punto si schianterà» - sarà la conclusione cui il processo deve approdare. Ma non senza che prima, dinanzi agli occhi della condannata, per una finzione nata dall'estrema forza dei suoi sogni, non siano cadute appunto le mura di quella prigione. E sarà ancora il teatro, l'ingenuo e sanguinoso teatro d'opera, fonte di passioni e di peccati, ad operare il miracolo. Un'apparizione nella mente febbricitante della donna dell'immagine luminosa, dorata, luccicante di quel teatro immaginario e a cui dà vita la voce traballante di una moribonda, di fronte a un pubblico immenso e che nella realtà è composto soltanto dalle facce pallide e spaurite dei suoi due bambini, anch'essi prigionieri innocenti, è di una straordinario suggestione. I fatti dell'opera, che è Il Trovatore, il più fosco e allucinato dramma di Verdi, si confondono con quelli della vita. Altri personaggi si affacciano alla sua mente. Tre eroi, Raul, Ernani, Don Alvaro, hanno duellato per conquistarla. Una notte il padre fu riportato a casa tutto sanguinante e aveva accanto una specie di zingara. Quella notte si compì il suo destino. E con questi fatti incredibili e assurdi, affidati al canto e al ricordo, la prigioniera si avvia alla morte. I due spettatori incantati, i due bambini, nemmeno essi riusciranno a capire, trasportati dalla favola di quella rappresentazione, che la loro madre, caduta per terra alla fine del dramma, è morta davvero.
(tratto da Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1992)
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